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Le monache centenarie
(di Pisa)

Il moderno monastero di San Bernardo di Pisa derivò dall’unione di tre gruppi di edifici: 1) l’ex ospedale di Osnello dal 1412; 2) la casa, la chiesa e l’orto di San Benedetto al Pontonaio acquisito nel primo decennio del Cinquecento; 3) e la terra con casa nel “chiasso Canuto” avute dall’ospedale del Grasso circa nello stesso periodo.
Con il permesso delle autorità pubbliche, i tre complessi vennero accorpati e circondati da “muraglie” che li separarono dall’esterno e dai beni della famiglia Del Poggio, come si trova ricordato.
Vi lavorò anche il muratore Bastiano Ferrini che nel 1489 si occupò in particolare della ristrutturazione di chiesa e dormitorio.
Sua figlia, Lucrezia si vestì con l’abito cistercense prendendo il nome di donna Piera.
Il monastero così assemblato ospitò di media sempre una cinquantina di monache, governate dapprima da una badessa perpetua (a vita), che in genere espresse l’autorità di una casata o di una classe socialmente alta.
Tale comunità, essendo di regola benedettina, praticò l’ ora et labora, il prega e lavora, voluto già dal VI secolo dal santo fondatore per reprimere l’ozio ritenuto dannoso alla vita religiosa.
Non si trovano però nei Ricordi quali attività specifiche le monache intraprendessero, oltre a quelle legate al culto e alla vita collettiva.
Considerando tuttavia come i monaci dell’Ordine si impegnassero duramente e fisicamente nelle bonifiche e nelle coltivazioni, si può pensare che pure le “domine” si occupassero di terre e di allevamento, tramite i contadini, i pastori o i boscaioli.
Ebbero infatti possedimenti a La Vettola, a San Giusto in Canniccio, a Cascina, a Montemassimo di Livorno, per citarne alcuni.
Inoltre, quando ebbero dimora nei conventi alle Fauces Arni e a Porta a Mare, dovettero svolgere dei compiti aggiuntivi (di custodia?) che spiegano perché i loro edifici fossero stati fondati in modo non casuale tutti accanto al fiume ... Senza escludere naturalmente, dal punto di vista dei lavori, quelli tipici delle suore quali la tessitura, i ricami, le confezioni di stoffe preziose, la filatura dell’oro, la cucina.

I Ricordi di San Bernardo non ne parlano; sono per lo più descrizioni di case e terre e vicende generiche come le vestizioni di suore, l’ammontare della dote apportata, la famiglia di provenienza o il decesso, e danno conferma, se si fosse dubitato, di come le figlie di gente altolocata diventassero badesse, camarlinghe o sagrestane e come fosse seguito un ordine rigido di obbedienza che manteneva la stabilità del monastero.
Altre notizie riguardano il cappellano – che celebrava la messa a porte chiuse e impartiva i sacramenti – e il visitatore ispettivo, essendo le comunità femminili soggette al ramo maschile cistercense.
Ad esempio si trova come nel settembre 1521 fosse stato mandato per cappellano il professo dom Filippo con aggiunta l’autorità abbaziale nello spirituale e nel “temporale”.
L’anno dopo fu dom Piero abate di San Salvadore di Settimo a venire in visita.
Incontrò la badessa perpetua, la “dignissima” madonna Filippa dal Colle, e accertò che era “in età declepita (= decrepita) et non poteva aministrare più el monastero”.
Pertanto nominò una vicaria, che era la nipote suor Iacopa dei Lambardi; quindi fece l’inventario e “ridusse alla observantia e alla vita comune detto monastero”.
Il primo maggio 1523 la venerabile Filippa scese come al solito a tavola in refettorio (la badessa ormai non mangiava più separata dalle altre) e, “venendoli uno ramo di gociola, portata a bbraccia in sul suo letto, a ore cinque noctis obdormivit in Domino” (presa da un colpo apoplettico, fu portata a braccia nel suo letto e si addormentò nel Signore alle ore cinque della notte).
Al suo posto, il 17 maggio, fu eletta suor Angela dei Lanfranchi che non fu più badessa perpetua ma di durata triennale e soggetta all’autorità di dom Filippo (di nuovo cappellano), “cum potestate confirmandi in aliud triemnium”, con potestà di conferma per un altro triennio.

Oltre a donna Filippa, altre tre cistercensi del monastero ebbero vita lunghissima, secondo i manoscritti.

La prima fu “donna Anfrosina pisana de’ Manellini di anni centi 4 – passò di questa vita addì 3 di marzo 1566 con tutti li santi sacramenti et manifestò l’ora del suo morire; et sempre stette in cervello per fine a l’ultimo fiate con tanta devocione et contricione che fu a noi grandissimo exemplo”, dice il ricordo.
Si era vestita monaca nel 1483 e aveva ricevuto la dote in terre e fiorini dallo zio Michelangelo.
La seconda fu donna Chiara dei Palavisini di Genova deceduta il 17 luglio 1565 di anni “centi uno con buono sentimento per infino all’ultimo fiato a gloria di Dio”.
La terza si chiamò donna Lisabetta Matraini da Lucca e passò “di questa a miglior vita a di 31 dicembre 1603 [= 1602] et era d’età d’anni 102 ...

Paola Ircani Menichini, 6 dicembre 2019. Tutti i diritti riservati